poetica

Funambola incosciente affronto il filo dell’esistenza sospeso dal nulla… al nulla.
Tutto ciò che mi circonda entra nelle mie opere:
l’acqua del mare, il suo sale, il suo grembo, il suo sapere;
la terra, il suo humus, la sua rete di radici intrecciate, i suoi cicli salvifici;
le mura antiche, le scrostature del tempo, i sussurri della Storia;
le intime riflessioni, i piccoli gesti quotidiani, le parole custodite, i frammenti preservati.
Tutto è materia narrante: evoca un passato recondito, parla al presente e talvolta sogna il futuro.
La ascolto, la lavoro come Lei stessa suggerisce, la spalmo su superfici o lascio che disegni lo spazio circostante. Il tempo rallenta e nel suo dilatarsi trova finalmente spazio la riflessione. Questo è il luogo che mi definisce: il labile confine tra ciò che è e ciò che sarà.

 

“Porta del Sole”, così era chiamata la terra in cui vivo, una terra di confine tra nord e sud, luogo denso di storia, archeologia, di mare e natura, paesaggio che segna il mio sentire: la ricerca di un luogo definito, narrato e la consapevolezza della sua labilità.
Confine, margine che definisce senza arginare. Luogo dell’esistenza dove da sempre le tracce lasciate dalla Storia si mescolano a quelle segnate dalla natura e dal tempo, dove l’orizzonte ampio del mare abitua lo sguardo a scorrere sull’indefinito, ad immergersi in un percorso intimo, in cui la visione del presente si mescola alla dimensione introspettiva.

 

Ho scelto la terra, la materia come mezzo per raccontare ciò che materiale non è, per inventariare frammenti di memorie, piccoli elementi, parole scritte o segni tracciati, per gettare ponti comunicativi tra un “sapere” e l’altro, tra un “sentire” e l’altro, nella necessità di trovare una essenza comune alle cose.
La terra è un filo che trasversalmente, con la sua forza evocativa, ci unisce al passato, accoglie e racconta il presente e con il suo potere ciclico vitale e immaginifico ci proietta nel futuro. Essa rappresenta il corpo, la storia e contemporaneamente l’anima e la poesia: il paradosso del nostro esistere. Ed è sempre la materia che si dispone sulle superfici. Si stratifica in trame tessute, in sovrapposizioni di carte ed elementi ritrovati, si mescola alla terra e ai suoi pigmenti, all’ombra e alla luce, si apre in crepe capaci di tratteggiare, di suggerire, di essere “margine che definisce ma non argina”: luogo di una visione, di mescolanza di immerso ed emerso, di presente e di intimo, di riconoscibile e di indefinito.